copertina
C’è questo bambino che gioca al parco giochi. L’area è distinta dal resto del parco tramite il terreno elastico rossoscuro, un’isola circondata da diligenti panchine e informali platani. Di fronte allo scivolo c’è una fontanella milanese, attorno la terra smossa bagnata. Il cespuglio di cotogno del Giappone continua ad attirarmi violentemente. Quel rosa carico raggruppato nei petali copiosi, sospeso sopra i lucidi rami neri. Le spine acuminate ritmicamente disposte. Un’imponente massa rosa scossa dal brulicare incessante delle api che ronzano da un fiore all’altro, volando sopra i pistilli gialli. Un rumore di ali e di mascelle febbrili mi arriva forte nell’orecchio e con la sua monotonia mi fa sprofondare in uno stato di catatonia. Fisso ammirato i sederi rigonfi degli insetti che oscillano su e giù, tutti ronzanti attorno a me, nell’orecchio e nella bocca. La sento parlare vicino, sulla panchina. Di quando in quando riesco a girare gli occhi leggermente e intravedo un pezzo della sua coscia spalmata sulla panchina. Indossa un abito di cotone spesso, dalla fantasia chiassosa, la cui gonna ampia si dispone in morbide pieghe attorno a lei. La sento comporre velocemente uno status di Facebook con il suo iPhone nero tra le mani. Mi giro a guardarla, il volto chinato verso l’argentineo bagliore. Solleva il viso e mi guarda con i suoi occhi neri. L’avevo conosciuta un pomeriggio di agosto dell’anno scorso al mare con gli amici, era carina, simpatica, docile e mi viziava dolcemente. La sua bocca dal labbro inferiore incredibilmente morbido si apriva volentieri al sesso e spesso quando mi parlava non riuscivo a fare altro che fissarglielo, rosso e turgido. “Un uomo non può stare solo.” Così è scritto e io mi attenevo ad esso, che fosse lei o infinite altre non importava. Il cane del bambino è un cucciolo di Jack Russell Terrier, un millino scodinzolante e dalla liscia lingua rosa. I due si rincorrono girando attorno ai pali che sostengono la casetta, poi fanno per un paio di volte lo slalom tra il delfino e la motocicletta. Non c’è nessun altro nel parco, il sole è grigio dietro le nuvole e si sentono solo le api ronzare e il cane ansimare. All’improvviso sento freddo alla nuca e mi chiedo cosa ci sia oltre la leggera collina verde che mi chiude l’orizzonte. Lei continua a stare seduta da parte a me, sento il suo odore forte e dolce che mi sale per il naso. Il cane arriva ansimante fino a noi. Con i suoi occhi scuri mi fissa un istante prima di infilarmi deciso il muso fra le gambe. Mi alzo in piedi con impeto, lui ringhia. “Cerbero, buono!” dice il bambino mentre s’avvicina a noi. Ha dei capelli biondi arricciati che gli incorniciano il viso, disordinati. Gli occhi sono chiari, di un colore oscillante tra il verde e l’azzurro, e molto grandi. Vedo che la fissa intensamente. Avrà sui dodici anni, il viso roseo dalle guance rosse e tonde. Mani piccole dalle unghie lunghe e sporche di terra. Cerbero continua a ringhiarmi, mostrandomi le giovani gengive rosee. Il bambino resta fermo davanti a noi, muto. Un’espressione vacua sul volto, non un muscolo contratto solo gli occhi scintillano. Mi accorgo che ha delle profonde occhiaie viola sotto gli occhi. “Abiti qui vicino?” la voce calda di lei squarcia l’atmosfera e mi strappa dalla mia catatonia da cotogna del Giappone. “Eh, piccolo?” continua, io mi giro a guardarla. Ha messo via lo smartphone e si è piegata in avanti, appoggiando i gomiti alle ginocchia e i capelli neri le scendono lungo il viso. Il seno tende il corpetto dell’abito e dalla mia posizione eretta riesco a intravederle l’attaccatura dei seni. Le api ronzano. Il bambino senza smettere di fissarla sposta la testa verso sinistra e poi verso destra. Ha schiuso leggermente la sottile bocca rossa. “Come ti chiami?” gli domanda ancora lei. Lui per la prima volta stacca gli occhi dalla sua figura, ora sorride accentuatamente. Lascia vagare lo sguardo oltre le nostre spalle, io ritorno a fissare i fiori rosa. Fa freddo in questo giorno di marzo nonostante le gemme sugli alberi, i peschi in boccio e i crocus nelle aiuole. “Come ti chiami?” il bambino parla. Mi girò rapidamente verso di lui, sta in piedi di fronte a lei. Le gambe ben dritte e la schiena sciolta, la fissa con i suoi occhi verdi cerulei. Indossa degli anonimi pantaloncini blu in tela e sopra un’ampia casacca anch’essa blu. Ha una voce molto bassa, forse mi sono sbagliato, forse non ha 12 anni. Dalla luce che scintilla nei suoi occhi, dalle occhiaie e dalle mani magre e nervose potrebbe avere un’età qualunque. Lei sorride e gli risponde con la sua voce morbida “Diana”. Lui sogghigna, realmente la bocca gli si curva in un sorriso amaro, trattenuto e gli occhi prendono una piega verso il basso restringendosi. Mi accorgo che lei continua a fissarlo, il suo telefono vibra leggermente ma lei sembra non accorgersene. Quei due restano fissi a guardarsi in silenzio. Faccio un passo verso di lei, ma Cerbero abbaia e scatta in avanti. “Tieni a bada questo tuo cagnetto!” dico al bambino. Lui mi guarda e poi guarda il cagnolino “Non avrai forse paura di lui?” mi chiede inclinando la testa di lato, con la sua voce bassa. Mi accorgo che arrotola leggermente le erre. “Non ho paura, solo mi dà fastidio che cerchi di mordermi” gli rispondo passando lo sguardo da lui a Cerbero, che resta fermo davanti a me ben piantato sulle sue ridicole gambette. Lei lo sta ancora fissando negli occhi, sembra che non si sia minimamente accorta che quello stronzo di Jack Russell abbia cercato di mordermi. “Dai andiamo” le dico, guardandola. “Sei molto bella, Diana” dice lui. Ora siamo uno in fianco all’altro. Da seduto mi sembrava molto più basso, solo ora che gli sono da parte realizzo che è parecchio alto, la sua testa arriva giusto sotto la mia spalla. Al suo complimento lei arrossisce in viso, china la sua testa verso il basso e le spalle mi sembrano scosse da un fremito. Ho un’altra fitta di freddo alla nuca. Il bambino continua a parlare “Allora, Diana, studi da infermiera giusto?”. Mi giro stupito verso di lui, come cazzo fa questo stronzetto a sapere cosa studia la mia Diana? “Sì, come fai a saperlo?” gli risponde lei tranquilla. Non mi ha ancora guardato dall’inizio di questa bizzarra conversazione. Il bambino sposta il peso del corpo sul piede sinistro e poi su quello destro “Ti ho visto all’ambulatorio di via Vercelli” e lei sorride, aperta e solare. “Sì faccio tirocinio lì” gli risponde. Il bambino si siede sulla panchina da parte a lei, dove prima ero seduto io. Volge il suo viso verso di lei; anche lei sposta il peso del suo corpo all’indietro e si gira verso di lui. Sono molto vicini, le cosce quasi si toccano. Mi chiedo quanto ancora andrà avanti questa conversazione e come poterla chiudere al più presto. “Dai andiamo” le ripeto ma lei non si accorge nemmeno che parlo, continua a guardare negli occhi il bambino. Un lampo le passa per le iridi scure e si lecca il morbido labbro inferiore con la rossa lingua. “Sei molto bello” dice Diana al bambino. Io comincio a sudare nonostante non ci sia sole e non faccia per nulla caldo, la testa mi gira e avverto una impellente necessità di defecare. Cerbero continua a ringhiare sommessamente in direzione delle mie gambe. “Io so una cosa che tu non sai” le dice lui. Diana sorride, i capelli neri le volano attorno al viso per l’improvviso vento freddo che scivola nel parco. “Dimmela” gli chiede continuando a sorridere, la sua borsa è caduta dalla panchina e il contenuto si è rovesciato sulla nuda terra. A Diana quando sorride maliziose vengono le fossette. Non oso neanche fare un passo verso di lei, resto fermo davanti a loro con il cane minaccioso da parte a me. Diana ancora non mi guarda. “Dai andiamo, Diana, abbiamo un appuntamento tra poco” e mentre io dico questo guardandola con tutta l’intensità che il capogiro e i crampi allo stomaco mi consentono, quel viscido bambino si china verso di lei. Gli scosta i capelli setosi e gli sussurra qualcosa nell’orecchio. Poi si scosta e Diana ha in volto un’espressione che non le ho mai vista, le guance gli si sono tinte di rosa acceso, gli occhi neri brillano e non si staccano dal moccioso, la bocca lievemente aperta. Le labbra rosse gonfie e i denti dritti candidi. Lui allunga una delle sue mani sudice e sgraziate, le tocca il viso. Con la mano ben distesa accarezza la guancia di lei. Restano fermi per un istante così, i corpi ravvicinati, una mano sul volto guardandosi muti negli occhi. Lui fa un cenno lievemente con la testa in direzione della collina, e lei si alza con scioltezza. Non prende neanche la sua borsetta, non mi guarda neppure. Ora i suoi occhi sono fissi oltre la collina. Leggera nel suo abito variopinto, mano nella mano con quel bambino si allontana lentamente. Cerbero, dopo avermi dato una strattonata di avvertimento allo stinco, li segue. “Diana! Diana dove cazzo vai? Diana?” urlo più volte ma sempre restando fermo, la testa mi gira orribilmente e sono costretto a sedermi sulla panchina. È ancora calda del corpo di lei. L’ultima cosa che vedo sono i suoi lunghi capelli neri che danzano nel vento e poi più nulla, scomparsa dietro la collina. Un istante dopo mi giro sul fianco e vomito la colazione.
(Se siete curiosi di sapere come va a finire scrivetemi!)