Perché un blog

Avere un blog è come avere un amante: qualcosa di segreto, da condividere solo con le amicizie più fidate, qualcosa che ruba tempo “all’ufficiale”, un tempo che è straordinariamente di qualità, quella tipologia di tempo che scorre non conteggiato, pieno di appagamento. Un amante esigente, che ti obbliga a prenderti nuovamente cura di te stessa, ti costringe a ripensare al tuo valore. Un blog, per una persona che ha la scrittura come missione di vita, è un esercizio prezioso: un tiranno quotidiano da onorare, uno strumento di piacere che fa oscillare tra godimento e sofferenza.

Un blog, in un tempo in cui non si devono fare più blog, perché non fanno fare più soldi – apriti un profilo Instagram e trovati un tipo abbastanza scemo da assecondare il tuo narcisismo e paga un bot per avere follower- è un atto di ribellione. È come camminare sotto la pioggia senza l’ombrello, come andare in contro mano in bicicletta, come vestirsi male quando bisogna vestirsi bene, uscire struccata il venerdì sera.

Aprire un blog è come urlare dalla finestra: speri che qualcuno risponda ma l’importante in realtà è urlare, continuare a urlare per restare vivi.

 

Vittima anch’io

Ebbene non potevo  resistere a fare un post su questo argomento. Non perché abbia qualcosa di straordinario da dire, ben inteso. Non sono una critica musicale, non sono neanche un’esperta di musica elettronica. Sono solo una persona normale che ama la musica.

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Come avrete già capito voglio parlare del nuovo album dei Daft Punk. C’è stato un’escalation d’attesa per questo nuovo lavoro spaventoso. Me ne sono accorta (oltre per i banner onnipresenti) per diversi status su Facebook di persone che tra loro non si conoscono ma tutte ugualmente commentavano in tono sarcastico la scimmia di qualcuno di imprecisato che sicuramente dieci minuti prima gli aveva fracassato le palle parlandogli del nuovo attesissimo album dei Daft Punk e di quanto fosse figo il primo singolo. Il gruppo già di per sé non genera simpatia, sono noiosi, non fanno altro  che remixare pezzi sconosciuti o troppo vecchi, non inventano nulla, sono dei narcisisti che si mettono delle maschere perché è l’unico modo che hanno per attirare l’attenzione, sono COMMERCIALI. L’avrete sentite anche voi queste frasi, o magari le pensate.

n.b: lo sentite il piano? È un piano vero, e lo suona il vostro amico pazzo e strano che si chiama Chilly Gonzales.

Io sono abbastanza felice perché ricordo perfettamente la prima volta che vidi il video di One More Time su MTV (che all’epoca trasmetteva musica, si chiamava così per una ragione, mica per altro…). Ricordo la sensazione potente che mi trascinava a ballarla e cantarla, accordi del diavolo senza dubbio. Quella sensazione di star ascoltando qualcosa di familiare ma al contempo nuovo.

Sono altrettanto felice perché sto leggendo delle ottime recensioni, tipo questa o questa, e mi fa piacere sapere che non sola. Lascio ai soliti snob hypster/chic di Milano la noia di lamentarsi come escamotage di realizzazione personale. Perché se questo album fosse uscito con un altro nome in copertina, altro che Gotya mania…

E poi signori andate a ballare ai party da 20 euro all’ingresso e non vi fidate di Giovanni Giorgio, detto Giorgio?

 

 

I cani e i bambini sono i peggiori nemici di ogni scrittore

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C’è questo bambino che gioca al parco giochi. L’area è distinta dal resto del parco tramite il terreno elastico rossoscuro, un’isola circondata da diligenti panchine e informali platani. Di fronte allo scivolo c’è una fontanella milanese, attorno la terra smossa bagnata. Il cespuglio di cotogno del Giappone continua ad attirarmi violentemente. Quel rosa carico raggruppato nei petali copiosi, sospeso sopra i lucidi rami neri. Le spine acuminate ritmicamente disposte. Un’imponente massa rosa scossa dal brulicare incessante delle api che ronzano da un fiore all’altro, volando sopra i pistilli gialli. Un rumore di ali e di mascelle febbrili mi arriva forte nell’orecchio e con la sua monotonia mi fa sprofondare in uno stato di catatonia. Fisso ammirato i sederi rigonfi degli insetti che oscillano su e giù, tutti ronzanti attorno a me, nell’orecchio e nella bocca. La sento parlare vicino, sulla panchina. Di quando in quando riesco a girare gli occhi leggermente e intravedo un pezzo della sua coscia spalmata sulla panchina. Indossa un abito di cotone spesso, dalla fantasia chiassosa, la cui gonna ampia si dispone in morbide pieghe attorno a lei. La sento comporre velocemente uno status di Facebook con il suo iPhone nero tra le mani. Mi giro a guardarla, il volto chinato verso l’argentineo bagliore. Solleva il viso e mi guarda con i suoi occhi neri. L’avevo conosciuta un pomeriggio di agosto dell’anno scorso al mare con gli amici, era carina, simpatica, docile e mi viziava dolcemente. La sua bocca dal labbro inferiore incredibilmente morbido si apriva volentieri al sesso e spesso quando mi parlava non riuscivo a fare altro che fissarglielo, rosso e turgido. “Un uomo non può stare solo.” Così è scritto e io mi attenevo ad esso, che fosse lei o infinite altre non importava. Il cane del bambino è un cucciolo di Jack Russell Terrier, un millino scodinzolante e dalla liscia lingua rosa. I due si rincorrono girando attorno ai pali che sostengono la casetta, poi fanno per un paio di volte lo slalom tra il delfino e la motocicletta. Non c’è nessun altro nel parco, il sole è grigio dietro le nuvole e si sentono solo le api ronzare e il cane ansimare. All’improvviso sento freddo alla nuca e mi chiedo cosa ci sia oltre la leggera collina verde che mi chiude l’orizzonte. Lei continua a stare seduta da parte a me, sento il suo odore forte e dolce che mi sale per il naso. Il cane arriva ansimante fino a noi. Con i suoi occhi scuri mi fissa un istante prima di infilarmi deciso il muso fra le gambe. Mi alzo in piedi con impeto, lui ringhia. “Cerbero, buono!” dice il bambino mentre s’avvicina a noi. Ha dei capelli biondi arricciati che gli incorniciano il viso, disordinati. Gli occhi sono chiari, di un colore oscillante tra il verde e l’azzurro, e molto grandi. Vedo che la fissa intensamente. Avrà sui dodici anni, il viso roseo dalle guance rosse e tonde. Mani piccole dalle unghie lunghe e sporche di terra. Cerbero continua a ringhiarmi, mostrandomi le giovani gengive rosee. Il bambino resta fermo davanti a noi, muto. Un’espressione vacua sul volto, non un muscolo contratto solo gli occhi scintillano. Mi accorgo che ha delle profonde occhiaie viola sotto gli occhi. “Abiti qui vicino?” la voce calda di lei squarcia l’atmosfera e mi strappa dalla mia catatonia da cotogna del Giappone. “Eh, piccolo?” continua, io mi giro a guardarla. Ha messo via lo smartphone e si è piegata in avanti, appoggiando i gomiti alle ginocchia e i capelli neri le scendono lungo il viso. Il seno tende il corpetto dell’abito e dalla mia posizione eretta riesco a intravederle l’attaccatura dei seni. Le api ronzano. Il bambino senza smettere di fissarla sposta la testa verso sinistra e poi verso destra. Ha schiuso leggermente la sottile bocca rossa. “Come ti chiami?” gli domanda ancora lei. Lui per la prima volta stacca gli occhi dalla sua figura, ora sorride accentuatamente. Lascia vagare lo sguardo oltre le nostre spalle, io ritorno a fissare i fiori rosa. Fa freddo in questo giorno di marzo nonostante le gemme sugli alberi, i peschi in boccio e i crocus nelle aiuole. “Come ti chiami?” il bambino parla. Mi girò rapidamente verso di lui, sta in piedi di fronte a lei. Le gambe ben dritte e la schiena sciolta, la fissa con i suoi occhi verdi cerulei. Indossa degli anonimi pantaloncini blu in tela e sopra un’ampia casacca anch’essa blu. Ha una voce molto bassa, forse mi sono sbagliato, forse non ha 12 anni. Dalla luce che scintilla nei suoi occhi, dalle occhiaie e dalle mani magre e nervose potrebbe avere un’età qualunque. Lei sorride e gli risponde con la sua voce morbida “Diana”. Lui sogghigna, realmente la bocca gli si curva in un sorriso amaro, trattenuto e gli occhi prendono una piega verso il basso restringendosi. Mi accorgo che lei continua a fissarlo, il suo telefono vibra leggermente ma lei sembra non accorgersene. Quei due restano fissi a guardarsi in silenzio. Faccio un passo verso di lei, ma Cerbero abbaia e scatta in avanti. “Tieni a bada questo tuo cagnetto!” dico al bambino. Lui mi guarda e poi guarda il cagnolino “Non avrai forse paura di lui?” mi chiede inclinando la testa di lato, con la sua voce bassa. Mi accorgo che arrotola leggermente le erre. “Non ho paura, solo mi dà fastidio che cerchi di mordermi” gli rispondo passando lo sguardo da lui a Cerbero, che resta fermo davanti a me ben piantato sulle sue ridicole gambette. Lei lo sta ancora fissando negli occhi, sembra che non si sia minimamente accorta che quello stronzo di Jack Russell abbia cercato di mordermi. “Dai andiamo” le dico, guardandola. “Sei molto bella, Diana” dice lui. Ora siamo uno in fianco all’altro. Da seduto mi sembrava molto più basso, solo ora che gli sono da parte realizzo che è parecchio alto, la sua testa arriva giusto sotto la mia spalla. Al suo complimento lei arrossisce in viso, china la sua testa verso il basso e le spalle mi sembrano scosse da un fremito. Ho un’altra fitta di freddo alla nuca. Il bambino continua a parlare “Allora, Diana, studi da infermiera giusto?”. Mi giro stupito verso di lui, come cazzo fa questo stronzetto a sapere cosa studia la mia Diana? “Sì, come fai a saperlo?” gli risponde lei tranquilla. Non mi ha ancora guardato dall’inizio di questa bizzarra conversazione. Il bambino sposta il peso del corpo sul piede sinistro e poi su quello destro “Ti ho visto all’ambulatorio di via Vercelli” e lei sorride, aperta e solare. “Sì faccio tirocinio lì” gli risponde. Il bambino si siede sulla panchina da parte a lei, dove prima ero seduto io. Volge il suo viso verso di lei; anche lei sposta il peso del suo corpo all’indietro e si gira verso di lui. Sono molto vicini, le cosce quasi si toccano. Mi chiedo quanto ancora andrà avanti questa conversazione e come poterla chiudere al più presto. “Dai andiamo” le ripeto ma lei non si accorge nemmeno che parlo, continua a guardare negli occhi il bambino. Un lampo le passa per le iridi scure e si lecca il morbido labbro inferiore con la rossa lingua. “Sei molto bello” dice Diana al bambino. Io comincio a sudare nonostante non ci sia sole e non faccia per nulla caldo, la testa mi gira e avverto una impellente necessità di defecare. Cerbero continua a ringhiare sommessamente in direzione delle mie gambe. “Io so una cosa che tu non sai” le dice lui. Diana sorride, i capelli neri le volano attorno al viso per l’improvviso vento freddo che scivola nel parco. “Dimmela” gli chiede continuando a sorridere, la sua borsa è caduta dalla panchina e il contenuto si è rovesciato sulla nuda terra. A Diana quando sorride maliziose vengono le fossette. Non oso neanche fare un passo verso di lei, resto fermo davanti a loro con il cane minaccioso da parte a me. Diana ancora non mi guarda. “Dai andiamo, Diana, abbiamo un appuntamento tra poco” e mentre io dico questo guardandola con tutta l’intensità che il capogiro e i crampi allo stomaco mi consentono, quel viscido bambino si china verso di lei. Gli scosta i capelli setosi e gli sussurra qualcosa nell’orecchio. Poi si scosta e Diana ha in volto un’espressione che non le ho mai vista, le guance gli si sono tinte di rosa acceso, gli occhi neri brillano e non si staccano dal moccioso, la bocca lievemente aperta. Le labbra rosse gonfie e i denti dritti candidi. Lui allunga una delle sue mani sudice e sgraziate, le tocca il viso. Con la mano ben distesa accarezza la guancia di lei. Restano fermi per un istante così, i corpi ravvicinati, una mano sul volto guardandosi muti negli occhi. Lui fa un cenno lievemente con la testa in direzione della collina, e lei si alza con scioltezza. Non prende neanche la sua borsetta, non mi guarda neppure. Ora i suoi occhi sono fissi oltre la collina. Leggera nel suo abito variopinto, mano nella mano con quel bambino si allontana lentamente. Cerbero, dopo avermi dato una strattonata di avvertimento allo stinco, li segue. “Diana! Diana dove cazzo vai? Diana?” urlo più volte ma sempre restando fermo, la testa mi gira orribilmente e sono costretto a sedermi sulla panchina. È ancora calda del corpo di lei. L’ultima cosa che vedo sono i suoi lunghi capelli neri che danzano nel vento e poi più nulla, scomparsa dietro la collina. Un istante dopo mi giro sul fianco e vomito la colazione.

(Se siete curiosi di sapere come va a finire scrivetemi!)

Evgeny Antufiev

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Evgeny Antufiev

Insomma dopo che è caduto il muro di Berlino e il comunismo è finito, anche i russi si sono dati alle arti in tutta libertà. Mi viene in mente Limonv che racconta dei circoli degli scrittori pieni di sfigati dissidenti che non scrivevano una riga da secoli ma loro si giustificavano dicendo che c’era la censura. Bella scusa, no? Il protagonista di questo post invece è nato quando il comunismo c’era ancora, ma per poco e di sovietico ha ben poco se non quell’inquietudine sottile tipicamente slava. Si chiama Evgeny Antufiev, ha 24 anni e finalmente espone in Italia, più precisamente a Reggio Emilia.

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Il nostro ha soggiornato nella città emiliana portando a termine una collaborazione con la Collezione Maramotti e la mostra è il risultato di questa esperienza. Dal cacofonico titolo “Twelve, wood, dolphin, knife, bowl, mask, crystal, bones and marble – fusion. Exploring materials” la mostra conduce lo spettatore all’interno di una galleria di oggetti e materiali che si disincarnano dalla loro funzione originaria per rientrare a far parte del grande tutto magmatico. Evgeny ama sperimentare e usare diversi materiali, non si può definirlo uno scultore, un pittore, un fotografo. L’accezione più adatta, se proprio ne vogliamo dare una, è artista.

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I suoi lavori ricordano spesso dei feticci, degli strani elementi appartenenti a riti funebri antichi, connessi con una dimensione che abbiamo definitivamente perso. Forse è perchè Evgeny non solo è russo, è siberiano (che ormai da quando Nicolai Lilin è diventato volto di D-MAX, dopo aver pubblicato due libri, è diventato sinonimo di figo…) e lì, in quella terra tanto strana, pratiche antiche e legame con la terra sono rimaste, per necessità di sopravvivenza, più vive.

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Per visitare la mostra bisogna indossare dei fashionissimi copriscarpe, in modo di potersi aggirare adeguatamente per il labirinto di opere creato dall’artista, in cui fra ossa di delfino sbriciolato, testi, bamboline, capelli di nonne e molto altro il visitatore compie un viaggio all’interno dell’universo di Evgeny.

The Do

Dan  e Olivia

Dan e Olivia

The Do è un gruppo francese, nato nel 2005. Il nome deriva, al di là dei giochi semantici e grafici (d come nota, do come la prima e ultima nota..) dall’unione dei nomi dei fondatori. Olivia Merilahti, di origine franco-finlandese (come si può notare dagli zigomi e dalla voce infantilmente cristallina), e Dan Levy musicista polistrumentista. Si sono incontrati durante la realizzazione della colonna sonora del film “L’impero dei lupi” e da allora hanno cominciato a lavorare insieme componendo colonne sonore per film francesi, musiche per il teatro e per la danza. Nel 2008 il primo album A Mouthful e nel 2011 Both Ways Open Jaws. Io la prima volta che li ho ascoltati è stato per caso, come sempre, attratta da questo video.

Lei è bellissima e possiede una bella gamma vocale. Gli arrangiamenti sono curati e mai banali nello soluzioni. I pezzi variano da pezzi intimi sfacciatamente indie che regalano a volte momenti di pura felicità a ballate più ritmiche che volentieri compiono incursioni in territori musicali lontani dal rock d’origine.

In ultimo non c’è prova regina sulla validità di un gruppo che il confronto con il pubblico vero durante un live. Visto che il bel duo non è Italia ancora per un po’, ci si può accontentare del live session registrato allo studio Pigalle di Parigi. Meglio di niente.

 

 

 

Margaret, Alice e le altre

Da un paio di anni ho scoperto di avere un particolare feeling con le scrittrici canadesi. Quando dico entusiasta che mi piacerebbe andare in Canada la gente, mediamente, non reagisce molto. Al massimo mi dicono: “Perchè? Fa freddo! Non c’è un cazzo da fare”. Non essendo mai andata in Canada non posso dare il mio contributo alla diatriba, ma vi posso dire che le scrittrici canadesi hanno decisamente una marcia in più. Poi, che io ami un paese solo perchè mi piacciono gli artisti originari di quel posto è un altro problema… Lei è Alice Munro, classe 1931, nata a Wingham. Potrebbe essere mia nonna, sarebbe bellissimo avere una nonna tosta come lei e di sicuro non avrei avuto alcuna velleità da scrittrice.

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Questa donnina ha scritto capolavori di letteratura leggera, quei libri che ti scivolano pagina dopo pagina sotto gli occhi e intanto senza che tu ne accorga ti avvolgono come un boa costrictor e ti trascinano dentro la storia. Ma soprattutto ti trascinano in un viaggio all’indietro, di quei viaggi che solo la grande scrittura può farti compiere; insomma quei viaggi dentro l’essere umano che straordinariamente è sempre uguale a se stesso nonostante i luoghi e il tempo. Alice comincia a scrivere fin da ragazza mentre fa vari lavoretti per arrotondare, finchè non pubblica “La danza delle ombre felici” e BANG! vince il Governor General’s Award (il premio canadese più prestigioso). Da lì in poi è una serie di felici romanzi e racconti, una serie che dura tutt’ora visto che la signora Munro pubblica regolarmente sul New Yorker, Paris Review e altri magazine prestigiosi. Quest’anno era anche una candidata per il Nobel alla letteratura, andato invece a Mo Yan.

Quello che mi piace di più dei libri di Alice Munro è la sua sfacciata parresia sentimentale, la  capacità spietata di ritrarre l’essere umano in tutte le sue piccole pieghe. Dopo  che ho letto un suo libro mi sento sempre un po’ consolata, come se al mondo non fossi sola e la mia fosse solo una storia come tante. Mi fa lo stesso effetto di certe sere di grazia con gli amici, quando alla fine torni a casa e senti che, nonostante non hai fatto altro che gettare parole al vento, qualcosa dentro di te si è mosso.

“Avevano tutte più o meno trent’anni. L’età in cui  a volte si fatica ad ammettere che è la nostra vita quella che stiamo vivendo” (da Dulse)

“Le immagini e il linguaggio della pornografia e dell’amore si assomigliano: sono monotoni ed esercitano un fascino automatico che porta dritto alla disperazione” (da Bardon, autobus n°144)

Questa fierezza nella costruzione narrativa della storia, accompagnata ad uno stile pulito e vibrante mi fa venire in mente un’altra scrittrice canadese. Lei si chiama Margaret Atwood ed è nata nel 1939.

AU_181Anche lei è ancora viva e si mantiene decisamente attiva pubblicando romanzi, poesie, narrativa per bambini e saggistica. Una specie di uragano, insomma. Mi sono imbattuta nel suo romanzo “La donna che rubava i mariti” circa un annetto fa, in una calda e noiosa estate. Inutile dire che il romanzo costruito sulla vicenda di tre donne molto diverse, tre modi di vivere e intendere la femminilità mi ha subito conquistato. Anche uno dei primissimi lavori “Dancing girls: and other stories” tradotto in italiano nel molto più ammiccante “Fantasie di stupro e altri racconti” (libro per cui mia madre mi ha detto che non ritirerà mai più libri miei in biblioteca) del 1977 riflette la forza di questa scrittrice che in poche righe riesce a restituire al lettore una storia completa, in cui il non detto e il contesto fanno trasparire molto di più rispetto a ciò che viene detto. Femminista quando ancora non esistevano le femministe, ambientalista, e una vita dedicata alla scrittura passata anche insegnando in diverse università canadesi. Una signora della scrittura così noi, purtroppo, ce la sogniamo ancora. Vi lascio infine con queste parole di Alice.

“Credo che in ciascuno di noi ci sia il desiderio di assecondare e, al tempo stesso, di combattere ciò che prevede prospettive immutabili e fiumi di belle parole”

China, a new love to photograph

Cina: gli argomenti su di lei sono tanti, la paure ancora di più. Ho amici che mi hanno confessato di non riuscire a stare per più di un paio d’ore a Chinatown, qui a Milano. Altri che si dichiarano entusiasti e dicono che senza di loro non si saprebbe come fare (in qualche modo faranno visto che, causa crisi, i cinesi d’Italia stanno pensando di andare verso lidi più fertili). Di sicuro l’attenzione sulla Cina è forte, in tutti i campi. Così anche nell’arte contemporanea da un paio di anni  qualunque cosa sia targata “Made in China” riesce a intercettare l’attenzione dei galleristi e in generale gode di indulgente favore nei mercati Occidentali.  Ma non c’è da scandalizzarsi: a metà ottocento l’Occidente s’innamorò perdutamente del Giappone (vedi Impressionisti), e prima ancora dell’Egitto (vedi Napoleone). Adesso è il turno della Cina. Ma non solo per le opere degli artisti cinesi venuti in cerca di fortuna in Occidente, anche parecchi artisti occidentali si sono recati in Cina alla ricerca dell’altrove.

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Philip Sinden

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Philip Sinden

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Philip Sinden

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Nadav Kander

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Questo è solo un piccolo assaggio ovviamente, ma sono a mio parere delle immagini forti, in grado di svelare perchè questa nazione gigantesca ci affascini e al contempo di respinga. Un mondo totalmente diverso dal nostro e soprattutto un mondo che sta cambiando vorticosamente sotto i nostri occhi, mentre assistiamo impotenti dall’altra parte.

Sebastien Tellier e le notti di neve

 

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Sebastien Tellier non ha fatto un nuovo album e no, Sebastien Tellier non suonerà presto in Italia. L’ultima volta fu quest’estate a Milano, per l’esattezza al Carroponte a Sesto San Giovanni. Conservo ancora il biglietto integro, perché quella volta molto scioccamente non ci andai (da quell’esperienza ho capito una cosa molto importante: diffida dalle persone che non sono curiose). In ogni caso vi tedio oggi con Sebastien perchè ho scoperto che è bellissimo passeggiare di notte sotto alla neve a Milano. Ed è ancora più bello se passeggi insieme alla musica di Tellier.

Con quel suo faccione a metà fra Gesù Cristo (vedi copertina ultimo album ) e una simpatica canaglia russa, di quelle che un attimo prima di spaccarti la bottiglia di Beluga in testa ridono insieme a te delle stranezze delle donne; Tellier mescola pop, elettronica lo-fi e dance realizzando un miscuglio dall’ardua digeribilità. Il suo primo album uscito nel 2001, L’Incroyable verité, era contraddistinto da un lirismo e da una ricerca musicale raffinata che non ha avuto eguali negli altri lavori. Il percorso di Sebastien Tellier appare come quello di un giovane, di belle speranza, d’innegabile talento che a contatto con lo star system ne viene letteralmente galvanizzato.

Dal 2004, Politics, sforna un album quasi ogni due anni: Sexuality nel 2008 (contenente la famosissima Divine ), e nel 2012 My God is blue trascinato dal censurato singolo Cochon ville (non ve lo devo dire, vero, che cochon è maiale in francese….)

Insomma un percorso musicale piuttosto variegato e un uomo narciso che ha costruito un immagine di sé come un gaudente epicureo. Ma a me piace tanto passeggiare sotto la neve insieme a Sebastien….

Maniacalità delle domeniche lunghe

Ecco una serie di opere maniacali in cui mi sono imbattuta mentre sfogliavo il molto utile/interessante Colossal. Mentre guardavo queste foto mi è venuto da pensare che forse la persona che carica  gli articoli su Colossal, di cui io non riesco ad immaginare il viso ma so solo che si chiama Christopher, avesse bisogno di dire qualcosa ma di non riuscire proprio a farla uscire dalla bocca.

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In prima posizione l’opera dell’artista Lisa Nilsson, un’esperta della carta che si dedica, ultimamente, a riproduzione anatomiche rigorosamente composte da rotoli di carta di vario tipologia.

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In seconda posizione campi lisergici di tulipani in Olanda; cromie in tanti bei rettangoli, tutto molto carino (Ma mai all’altezza del capolavoro veramente naturale di Zhangye ). Il progetto, l’idea di riprendere questi campi di Anna Paulowna, una città dal nome di donna nel nord dell’ Irlanda, è firmato Normann Szkop.

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E infine si chiude con una vera opera di maniacalità, unica in tutta la sua complessità. Vi siete mai chiesti cosa fanno i guardiani dell’università?  In Giappone uno di loro ha fatto quest’opera, e per farlo ci ha messo otto lunghi anni. Ma la cosa divertente è che non è ancora finita, nell’era Espansa il bidello scrive su Twitter mostrando alle persone cosa sta facendo, e quelli si appassionano, mentre lui instancabile continua il suo labirinto. Se volete seguire anche voi il work in progress, prego: @Kya7y

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Ovviamente si ringrazia Christopher.

Firewall

A volte ho come l’impressione che ci troviamo di fronte una nuova era, che siamo all’inizio di una sperimentazione di forme e linguaggi del tutto nuovi. E come principianti proviamo, sbagliamo e riproviamo di nuovo. Molte voci si alzano indignate verso questi tentativi di allontanarsi dal preesistente per lanciarsi verso l’ignoto, ma personalmente diffido dalle persone che non hanno il coraggio d’immaginare l’impossibile. Solo chi ha il coraggio di pensare in modo nuovo potrà vedere albe differenti. Ecco perché voglio dedicare spazio all’ultimo lavoro di Aaron Sherwood, Firewall. Una sottile lamina di spandex, una membrana che si dilata al tocco dell’interlocutore e grazie ad esso si anima. Un’interazione fra macchina ed essere umano, visivo e sonoro, arte e tecnica.

L’opera vive del tocco del fruitore e la musica cambia in base al tocco stesso, grazie al Kinect che registrando la profondità della deformazione della membrana modula l’intensità della musica. Sherwood ha realizzato quest’opera all’interno di un percorso di ricerca che lo  porterà nel giugno del 2013 a presentare al pubblico una performance, Mizalu, in cui dei ballerini interagiranno con una grande pellicola di spandex nel tentativo di riflettere sugli spazi interstiziali fra vita e morte.

Transmedialità, convergenza chiamatela come volete ma il concetto di fondo non cambia. Nella fusione di più media nascono oggetti incredibili. A me continua a venire in mente la mia professoressa dell’università che il primo giorno di lezione ci disse:

I bastardi (nel senso i meticciati, i misti, i né carne né pesce) beh, salveranno il mondo.