Tre racconti russi

1. Da Smolenskaja a Izamajlovskaja

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Sembravano di metallo dorato, isolati dal resto dei viaggiatori da una lontananza tangibile. Lui restava in piedi sulle sue grosse scarpe da muratore quasi marroni. Aveva il viso dell’antico popolo dei boschi di pini, il fiato di neve e forse in fondo agli occhi si poteva scorgere il mare schiumoso. La guardava perdendosi in quel sorriso sciocco e sconsolante dell’amore inespresso, e lei seduta lo ricambiava con brevi parole e occhiate pregne di ammiccamenti trattenuti. La bellezza di una lolita inconsapevole, con ancora le orecchie a fare capolino tra i lunghi capelli di cenere. Vi era in loro qualcosa di disarmante, la loro semplicità era tanto bella da essere dolorosa. I loro abiti contribuivano a farli apparire sospesi nel tempo, bambini non ancora assorbiti dall’occidente volgare ma neppure ancorati ad un passato storicamente ingombrante.
Poi il dialogo, sospinto e allegro, si spegne nelle occhiate allo schermo lampeggiante. Dopo la conferma della voce angelica, s’insinua fra loro il silenzio della stanchezza, carico del peso del non detto. Lei si alza, avanza fino alla porte reggendosi ai due pali centrali del vagone. Brevi parole e poi un mogio saluto. Si allontana negli occhi di lui fino alla prima galleria.

2. Da VDNch a Bitcevckij Park


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Entrarono nella sala circolare, le luci erano fioche e il freddo sembrava forse più intenso. Davanti a loro la fila dei tornelli e, mentre la sirena musicale rieccheggiava alle loro spalle, si lanciarono giù per le scale. La grassa signora dello sportello 3 fece cadere un po’ di cenere dalla cicca stropicciata. Ora il caldo è soffocante sotto i lampadari opulenti, dolce nenia di sfavillii che si riflettono nel marmo bicromo. Poligraf Poligrafovic Pallinov e Filipp Filippovic Preobrazenskij siedono sulla panca della signorina dell’uva e aspettano pazienti il metrò che li riporti a casa. Sono due giorni che vagano per la città, del resto è il suo compleanno bisogna festeggiare in modo adeguato e quindi via! Ci si dà malati al lavoro e si passa il pomeriggio a mangiare spiedini e bere vodka al Centro di Esposizione di Tutta la Russia, mentre ci si gode il sole caldo di settembre e si guardano le babushke fare la spesa.
Il treno per Bitcevskij Park arriva, Poligraf si accascia di corsa nel primo posto libero mentre Filipp resta per un poco in piedi, dondolante vicino ad un angelo in paillettes blu. Urta uno sciocco ragazzino -che ci fai in giro!? sei come il mio più piccolo, una spina nel cuore- e crolla nell’ultimo posto libero del vagone. Ora dormono entrambi nelle loro giacche di cuoio logoro percorse da lunghe rughe, nei loro pantaloni dalle ginocchia lucide. I volti gonfi e rossi con gli occhi strizzati a proteggersi dalla luce dei neon. Ma la cosa che intimorisce sono quelle loro mani mostruose, grosse e solide, rovinate dal tempo. Mani plasmatrici di mondi e, al contempo, distruttrici di altrettanti.

3. Da Chistye Prudy aFrunzenskaja


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Era l’ultimo giorno di vacanza e la sua sfortuna gli appariva come una nube nera che andava di momento in momento a ingrossarsi, uno spettacolo orribilmente affascinante. Fra tre giorni sarebbe stato il 863esimo anniversario di fondazione di Mosca. La cosa peggiore in tutto ciò (oltre non poter girare per le strade con gli amici fino a mattina a bere e festaggiare, e regalare rose rosse alle donne) era che aveva visto Nastasja, così bella con gli occhi vivi e la pelle incantata. L’aveva accompagnata a fare un paio di commissioni nel quartiere mentre lei gli raccontava della scuola. Lui fumava e stava zitto girandosi a guardarla nella sua foga chiacchierina. Poi si erano seduti a far riposare un poco le gambe, lasciando che lo sguardo spaziasse per il piccolo stagno in secca. L’aveva riaccompagnata a casa lungo Staraya Basmannay, una eternità sospesa tra quattro corsie di auto rombanti, fili di alberi asmatici e davanti a loro il nulla sconfinato e agghiacciante delle facciate delle case popolari. Teneva il sacchetto con una mano mentre l’altra coraggiosamente stringeva la mano di Nastasja.
C’era il silenzio stanco delle ultime ore. Appoggiato al palo non sedeva, eppure posti non mancavano nel vagone. Ai suoi piedi una grossa sacca che si confondeva con la trama dei suoi pantaloni. Il viso di quel ragazzo bloccato tra il suo sguardo traditore d’inesperienza e l’ampia divisa militare nel cui collo affondava talvolta.